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Un ora al via del cross di Pioltello,
ultima delle cinque prove dello storico trofeo Monga, alla sua quarantaquattresima edizione.
Ben coperto da tuta e giacca antivento e con le scarpe da fondo lento zampetto per il percorso in modalità esplorativa, attaccando qualche chilometro ai sei previsti della gara, di per se non esattamente in linea con il programma di preparazione alla maratona che sto seguendo e a ben vedere più che due specialità diverse sembrerebbero due sport distinti la maratona e la corsa campestre. La corsa sviluppata nella sua pura regolarità, azione di leggerezza, idealmente fluida e imperturbabile alla durata nella maratona; sali e scendi, curve e controcurve nervose su terreni da affrontare passo per passo e di potenza nella corsa campestre.
In effetti se avessi un allenatore probabilmente disapproverebbe nel pieno dell’iter di avvicinamento alla maratona di Milano l’odierno contesto di impegno su sei fangosi chilometri ad esplorare in lungo e in largo un campo dell’interland milanese.
Venti minuti al via,
mi porto verso gli spogliatoi per togliere giacca, sovrastrati, tuta e cambiare le scarpe: avanti con le chiodate, qualche passo per uscire attraverso il corridoio e il marciapiede di cemento appoggiandomi ai talloni mentre i chiodi concentrati sull’avampiede tintinnano sulla superfice dura. In questo incedere l’agilità è quella di un otaria sulla battigia, fino a che non si arriva ad assaggiare la terra molle ancora intrisa delle ultime piogge per partire con qualche serie di progressioni in scioltezza, incrociando avanti e indietro gli altri contendenti impegnati nella stessa attività, a liberare un po’ di tensione.
Cinque minuti al via,
Dentro il mucchio a cercare posizione per la partenza, mi trovo, forse non solo per pura casualità nei dipressi del mio diretto antagonista.  
Pure contrastanti appariamo, se identificati nel gruppone fremente degli agonisti ammassati sulla mai abbastanza ampia linea di partenza io e Merisio. Non lo conosco, non ci siamo mai presentati ma qualcosa di lui la so oltre al perché e come ci troviamo qui, fianco a fianco, gomito a gomito con le gambe nude odoranti di olio canforato e i piedi piantati in un metro quadro di quello che ancora per poco potrà essere definito prato. Merisio ha una struttura fisica distinta dalla mia, con un profilo più aderente a quello del mezzofondista, di cui lui infatti ha buoni trascorsi, come confermato da quanto visibile dai rapporti FIDAL, che si, ammetto, settimana scorsa sono andato a consultare online non traendone particolare sollievo. Merisio gioca pure in casa, essendo il suo club organizzatore di questa gara e, trovandomi attorniato da soverchianti suoi compagni a tre minuti allo sparo del giudice di gara cerco di riposizionarmi senza troppe buone maniere su linee più esterne. Merisio è terzo nella classifica della categoria SM50 che ci accomuna, un punto davanti a me ma se arrivo prima di lui comunque piazzato lo raggiungo e a norma di regolamento, con il risultato dell’ultima prova prevalente, posso acciuffare il podio della manifestazione.
Un minuto al via
Il direttore di gara osserva severo l’allineamento sulla linea di partenza, peraltro chiudendo un occhio su qualche sforamento dovuto al gruppo ormai ribollente. Quando alza la pistola mi preparo all’imminente sparo respirando profondamente con il busto piegato avanti e caricando il peso su una gamba, caro Merisio vinca il migliore.
Ci siamo, anzi no non ci sono.
Tutto quanto sopra è quello che avevo programmato nella mia settimanale immaginazione.
Domenica ore 8.15, Sesto San Giovanni, pochi chilometri da Pioltello, nel traffico di una bigia domenica mattina percorribili in un paio di manciate di minuti, suona la sveglia riaggiornata in adeguamento ad un paio di indesiderate sveglie notturne, quelle d’altra parte non insolite per il me che sono, qualunque cosa le determini concretamente. Piccoli inciampi nella vestizione, nella deglutizione di una ristretta colazione e nell’uscita sono non solo determinanti di un ritardo crescente ma di un vago sentore di difficoltà, a somma di tutte e tante difficoltà in questa settimana di normale difficoltà vissuta.
Ore 9 in strada, devo suonare per richiamare un fesso che sosta sull’uscita del passa carraio (tanto è domenica chi sarà il fesso che esce con la macchina da qui – pensa lui).
Bene, bene, adesso recupero, oppure no e sbaglio la direttrice uno ideale, ma tanto la riaggiusto poi prendendo la tangenziale, penso;
meno bene: sbaglio direttrice due, lo svincolo per la tangenziale imboccando direzione Torino. Come ho potuto?! Fanno tre chilometri ad andare e tre per tornare al punto di partenza con la prima uscita.
Diabolico: esco, mi affido al navigatore non aggiornato, curva a sinistra curva a destra, doppia rotatoria, carta a sinistra carta a destra e … rientro ancora verso Torino.
Calmo, schiaccia, vai e torna. Rallentamenti, un tamponamento, calma ce la puoi fare lo stesso. Ancora tangenziale, svincolo, di nuovo tangenziale, provinciale, ecco Pioltello, centro sportivo e il parcheggio dove entro in contromano. Eccomi, carburante in riserva ma ci penseremo dopo e questo avrebbe potuto anche andare peggio.
Ore 9.45, dieci minuti al via, scendo dalla macchina, corro snervato e a naso alla ricerca della segreteria per il ritiro del pettorale caracollando la borsa. Fanno sei euro, non i cinque che avevo preparato e mi contano il resto in monetine e biglietti vari mentre un palpebra inizia a fremere incontrollata. Ancora calma, respira e poi prova a spillare il pettorale senza pungerti e a fissarlo più o meno dritto sulla canotta perché la mano deve essere ben ferma per ricambiare tutti i chiodi delle scarpe dato che quelli da dodici millimetri montati ieri pensando alle piogge non c’entrano niente col percorso in ampia parte di terra battuta intravisto, senza dire degli attraversamenti di pezzi asfaltati su scampoli di moquette.
Ore 9.58, arranco attraverso il parcheggio verso il gonfiabile della partenza per un percorso neanche esplorato, senza alcun riscaldamento. Quello che è peggio è che certamente non mi sto divertendo, anche meno dello studente in ritardo alla dettatura del compito in classe.
Sul via oltre a cercare un minimo di concentrazione non posso fare a meno di pensare quanto sarà dura a freddo spezzare il fiato volendo provare ad impostare una gara su un ritmo intenso. Poco dopo la partenza faccio appena a tempo a prendere posizione in un gruppo relativamente avanzato assorbendo un paio di grosse buche che un preoccupante fastidio al polpaccio destro inizia a montare e passando ad un micidiale sentiero in terra battuta piena di sassi si accende repentinamente la spia del dolore.
Non avrò percorso che cinquecento metri, alt, fermo a lato del tracciato, toccando la gamba, stirando il muscolo, strizzando le fibre. Non guardo quelli che sfilano numerosi di fianco a me, vorrei dire, anzi gridare, c’è un errore, fermatevi, non è possibile, ricominciamo da ieri, anzi magari da domenica scorsa da quel gol della Juventus e i rigori non dati all’inter oppure la metrò che ho perso lunedì con le porte che ti si chiudono davanti.
Dove sta lo sbaglio vero, quand’è che ho preso l’originaria svolta errata e poi è stato sempre tutto più difficile? Niente è facile, ancora non lo sai tu SM50? E’ davvero colpa mia evidentemente non capire che ci vuole sempre un grammo in più di forza, un secondo in meno di tempo e quel niente di determinazione aggiuntiva in tutto, no, no, non puoi rilassarti tu o perdi tutto. La vita scorre su fili da cui è facile deviare e cadere, adesso non guardare indietro, zoppica qualche metro avanti e poi deciderai se e come tirare oltre questi cinque chilometri e mezzo tutti da scoprire. 
Cammino, trotterello come se fossi lì per caso per una blanda sgambata e intanto dico a me stesso ancora e di nuovo, non più mentalmente ma ad alta voce, calmo, respira, fanculo polpaccio, fanculo chiodate, fanculo sterrato! Mi vedo, mi rido, appena partito, frequenza cardiaca da “sceso dal letto”, affanno da “ho fatto la doccia”, braccia sui fianchi e riparto con una gamba e mezzo; cadenza da somaro frusto e a testa bassa penso a Merisio avanti già settecento metri e alla battaglia che non è stata.
Eppur mi muovo or un po’ più veloce, un po’ meno lento, riuscendo a stare abbrancato alla schiena di qualcuno delle retrovie meno preparato, passando pateticamente un paio di fossi, salendo e scendendo da un terrapieno rigido come una giraffa in cantina e a mio esclusivo e ipotetico beneficio, sentenzio: fanculo corsa!
Sempre secco rispondo a me stesso convinto: Fanculo corsa!
Proseguo, soffro indebitamente, non mi diverto ma ci provo. Fanculo corsa!
(Nicola Brambilla)


17/02/2017


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