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Domenica 15/11/15. VERONA
Sono già sveglio da mezz’ora e alle sei e trenta la sveglia è muta perché inutile. Ho atteso questa domenica con pazienza, determinazione e ora un po’ di nervosismo per la mia sfida di maturità podistica, prova unica di maratona. In effetti sono già in corsa e senza grandi margini di tempo per fare colazione, vestirmi da corridore multistrato, raccattare armi e bagagli, trasferirmi in macchina dalla periferia della città al campo sportivo dove sbarcare la bicicletta e poi approdare nel cuore di Verona.
Attraverso la folla, verso l’ancoraggio prescelto per la bici, coda per il bagno chimico saltellando sul posto, verso una storica scalinata già sede di più nobili terga, via la tuta, giù la sacca al deposito, in griglia di partenza già stipata, avanti a pressare verso la start line, in posizione appena prima dell’annuncio dello speaker di meno quindici minuti.
Setto l’orologio con un respirone solenne, ci sono, ci siamo, pettorale affrancato, stringhe ben allacciate, guantini di seta assestati, nella calca posso appena sciogliere collo, spalle e, a scendere scrollare in alternanza le gambe.
Braccia contro braccia, la pelle nuda delle gambe con l’olio canforato e il count down fermo a meno cinque per un minuto di silenzio che scende più denso della greve umidità di cui è satura l’aria a cristallizzare respiri e battiti di un intero reggimento schierato. E’ una pausa satura di adrenalina e di inattesa, intima riflessione, che converge su un intuizione di cosa possa essere condividere e contendere.
Il tempo riprende con un attimo appena per levare la felpa grigia della champion con cappuccio abbandonandola con gratitudine assieme a qualche remoto ricordo di tempi universitari e ci si avvia infine verso l’arco gonfiabile oltre il quale i primi hanno già rotto gli argini per corre 42.197 metri.
Mentre si percorre come una rampa di lancio l’ampio viale verso Porta Nuova da doppiare come una boa si incrociano i drappelli dei primissimi che tornano verso il centro della città.
L’immagine decontestualizzata è, soprattutto di questi tempi, da notizia tipo per la scuola del bravo giornalista: tre africani, di cui uno con una vistosa barba profetica, inseguono correndo una pattuglia di vigili in moto con lampeggianti e sirene mentre la folla li applaude.
Dentro le strade strette del centro, sui sanpietrini e per curve angolate non è facile prendere il ritmo desiderato ma con costante progressione risalgo il flusso della corsa fino a raggiungere il drappello coi pacer delle 3 ore. Quando il percorso si stabilizza sui lunghi argini dell’Adige capisco che è arrivato il momento di lasciare i rassicuranti palloncini con la scritta delle tre ore per fare la mia corsa, affatto preoccupato della monotonia di un tragitto dritto accanto al fiume, io che ho corso la maggior parte dei milletrecento chilometri di allenamento per questa gara su e giù per lo stesso pezzo dell’alzaia naviglio grande.
E presto ho una bella sorpresa nell’intravedere la canotta gialla della atletica casorate che non può che appartenere a Cristiano, quel Cristiano incontrato e conosciuto nel mare magnum della maratona di Londra e la lasciato per una crisi di crampi.
Lo seguo da lontano avvicinandolo lentamente senza strappi per mettermi dopo qualche chilometro discretamente nella sua solida scia, decidendo di non palesarmi e distrarlo dal grande lavoro di precisione di movimenti ritmo e traiettorie cui prendo diretta ispirazione, mettendo a freno la mia tentazione di strafare.
La corsa porta dentro e fuori dal centro di Verona dove ad un primo giro abbandoniamo i partecipanti alla mezza registrando con qualche preoccupazione un passaggio fin troppo veloce rispetto alle mie previsioni e alla partenza ad handicap.
Di nuovo fuori città, sull’Adige si cementa un gruppetto in una felice armonia, modellata passo dopo passo, in una sincronia sul filo dei pochi centimetri di distanza uno dall’altro, che sembra possa portarci in una corsa fino all’infinito. Il richiamo alla realtà viene dal mio piede sinistro con un fastidio che prima del trentesimo chilometro da sussurro diventa voce per annunciare un dolore, che cerco di allontanare modificando l’appoggio e le contrazioni della gamba.
Non ora, parliamone più avanti, imploro al mio piede,non ora che il percorso diventa più nervoso dopo il passaggio attraverso uno stretto ponte pedonale sulla sponda dell’Adda transitata da stradine che con il trentacinquesimo chilometro rompono gli equilibri tra i corridori.
Qualcuno alza il ritmo e mi risucchia oltre Cristiano, contatti di gomito in curva, un ristoro affrontato in velocità piena per non perdere terreno, ognuno per se, con quello che gli è rimasto dopo due ore e mezza di gara.
Con gli ultimi rettilinei imposti dal fiume si rientra in città per ritrovare le storiche delizie medioevali che ogni maratoneta nel finale della sua fatica sa apprezzare, come le lastricature del fondo stradale sconnesse, le vie tortuose e i saliscendi di cui i Capuleti e Montecchi avrebbero più utilmente dovuto occuparsi invece di impicciarsi dei fatti altrui come una qualunque giunta comunale trasversale.
Un ultima salita al quarantunesimo chilometro con strappo ben evidente mi lascia sgomento alla sola vista e afflitto dai fastidi alla gamba sinistra cedo il passo a due antagonisti che poco prima avevo superato in scioltezza mentre pensavo di conquistare la cittadella senza più significative resistenze.
Mi riprende e sopravanza il generoso Cristiano incitandomi con una pacca sulla spalla, gesto che vale la mia gratitudine per come segna l’arrivo del momento di tirare fuori tutto quello che è rimasto e sapendo cosa costi in quella circostanza un solo movimento fuori posto.
Per il gran finale ci si proietta dentro piazza Bra arrivando da un vicolo con un lungo curvone che aggira l’arena e svela poco alla volta l’arco di arrivo e il palcoscenico di una piazza colma di gente, luce e musiche come se si uscisse dal buio delle quinte sulla scena di un teatro.
In apnea spingo fino all’ultimo metro per onorare questo sublime e innocente sperpero di energie e forze che è la Maratona.
Nessuna idea di morte in chi corre, sogni e fantasie raramente uccidono.

17/11/2015


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